VIVA IL CAPORALATO, ABBASSO IL SINDACATO!


Antonio Dovico – Follia o scherzo? Titolo incredibile solo per chi non ha l’abitudine di farsi domande.  Se la cosa ti incuriosisce, leggimi fino in fondo,  e capirai che non scherzo.
Per tranquillizzarti, lettore, ti dico subito che non mi riferisco al caporalato malandrino che sfrutta gli operai bisognosi, no, ma a  quello che ho sperimentato personalmente nella prima metà degli anni 50 del secolo scorso. Figlio e nipote di artigiano da parte paterna, già da adolescente, ero attirato dal lavoro autonomo, nonostante lo svantaggio, sia economico che sociale della categoria. Economia stentata e prestigio personale al ribasso, rispetto all’impiegato pubblico che con lo stipendio poteva fare risparmio, vestire bene e costruirsi la casa. Naturalmente se nel campionario femminile c’era una bella “picciotta” che si desiderava fare propria, l’impiegato, non importa quanto bello e intelligente, poteva anche essere “racchio” e insipido, vinceva facile la competizione. Purtroppo natura umana e ambiente sociale dettano legge!
Ho detto che mi attirava il lavoro autonomo, ma questo non mi impedì  di provare l’esperienza del subalterno. Avrò avuto 16/17 anni quando mi arruolai entusiasticamente nella “compagnia”, circa 250 uomini e donne, di un “caporale” mio vicino di casa – senza arte ne parte –, che però si ingegnava di trovare come vivere, ma onestamente. Nel territorio del catanese, allora, c’erano distese di vigneti di grande dimensione, carichi d’uva, e a me capitò di lavorare per circa quindici giorni nella vigna del principe Grimaldi, nel comune di Giarre, mi sembra di ricordare. I lavoratori nelle campagne, allora, erano sorvegliati da un soprastante dall’occhio vivo, e dalle maniere più brusche che tenere. Ma era così, allora, anche negli opifici, piccoli o grandi che fossero. Succedeva anche nella piccola bottega artigiana a conduzione familiare, come nel mio caso. La necessità aveva indotto mio padre, fabbro ferraio, a portarmi in “laboratorio”(parolone!) quando non avevo neppure 12 anni (informazione Gratuita! La scuola statale, allora, si fermava alla quinta elementare). Mio padre mi pressava a muovermi svelto per produrre di più. Sfruttatore disumano? No, arida legge dell’economia che non fa sconti a nessuno. Maledetto profitto? Neppure, esso è stimolo vitale per l’imprenditore, il quale oltre che per sé,  crea lavoro per terzi. Guai se mancasse.
Nell’operato del caporale di cui sopra, non c’è nulla di riprovevole, ma tutto da elogiare. Alla fine della campagna si tiravano i conti regolarmente, e ciascun arruolato lasciava l’equivalente di una giornata lavorativa. Tre parti in causa soddisfatte. Il proprietario del vigneto era sollevato dal disturbo di reperire operai. L’operaio a sua volta era stracontento delle mille lire giornaliere, che erano oltre il doppio di quanto un bracciante guadagnava nel messinese. Non rimanevano parti danneggiate, e non c’era spazio per il risentimento, il quale non è altro che  fuoco che brucia. Il sindacato “legale” conosce bene l’arte di soffiare sul fuoco, ed è sul  fuoco che gli riesce il miglior arrosto. Il sindacato non crea lavoro, al contrario con le sue regole vessatorie sommate a quelle governative, scoraggia chi lo crea e chi  avrebbe l’intenzione di farlo. “Lasciate fare [caporalato pulito] lasciate passare”, e niente perniciose pastoie burocratiche, o  dimenticheremo la stabilità; altro che crescita!

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